Un Affare di Famiglia locandina

Mi affaccio sempre con una certa impreparazione sul vasto mondo cinematografico giapponese, certamente più vario e complesso di quanto sia possibile percepire in Italia anche da parte di appassionati di cultura nipponica come me. Non aiuta il fatto che nei cinema italiani arrivino solo i film che hanno ottenuto qualche riconoscimento internazionale. Ciononostante, il cinema nipponico è sempre più spesso premiato alle mostre/concorso europee e ciò favorisce la distribuzione nazionale di titoli come “Le ricette della signora Toku” e “Little Sister” che avevo avuto il piacere e l’occasione di vedere nel 2015. A questa rivalsa internazionale di titoli profondamente legati alla cultura giapponese e, per fortuna, poco o nulla realizzati con un occhio di riguardo al mercato internazionale, ha ruolo essenziale l’opera di Hirokazu Kore’eda, regista nipponico ormai universalmente riconosciuto come uno dei capisaldi del cinema giapponese contemporaneo. Già autore di “Little Sister”, Hirokazu Kore’eda torna nei cinema italiani con “Un Affare di Famiglia”, pellicola che ha vinto la Palma d’Oro al recente Festival di Cannes.

Il caso mi ha portato a vedere il film in oggetto nel primo week end di programmazione ed è stato con piacere costatare la sala gremita da un pubblico attento ed interessato ad un’opera profondamente giapponese, condizionata da una concezione della vita e delle regole sociali di convivenza che non ci appartengono e, quindi, difficili da comprendere fino in fondo. È probabilmente questo aspetto che ostacola la piena fruizione della pellicola. Io per primo non sono riuscito a comprendere alcuni passaggi della trama e, con tutta probabilità, molti altri non li ho nemmeno percepiti. Anche il fattore portante di tutta la storia narrata rischia di sfuggire allo spettatore occidentale poco avvezzo alla cultura nipponica. I protagonisti, infatti, sono dei reietti della società. Destinati alla solitudine per condizione sociale o scelte di vita, vivono tutti insieme in una piccola e vecchia casa nascosta fra gli alberi di un quartiere residenziale. Pur non avendo fra loro alcun legame di sangue, costituiscono quella che non può essere considerata in altro modo che una “famiglia”. Traendone reciproco vantaggio sia materiale che emotivo, si aiutano e sostengono a vicenda. Seppur non manchino segreti e comportamenti meschini, il legame affettivo che li lega uno all’altro è fortissimo e garantisce loro una serenità esistenziale a cui mai avrebbero potuto aspirare gli uni senza gli altri. Da questo punto di vista, il loro rapporto è a dir poco straordinario basandosi su un’empatia che, nei momenti di aggregazione soprattutto serale, si esprime in una gioia inaspettata considerando lo stato di povertà in cui vivono. La loro atipicità, però, li estranea dalla vita sociale nipponica. Il fatto che alcuni di loro contribuiscano al ménage familiare con piccoli furti non è l’unica ragione di ciò. Prima di tutto, si tratta di persone che, per i canoni nipponici e non solo, sono considerati dei falliti. Sopravvivono con lavori umilissimi, vivendo la giornata e cercando di parassitare quanto più possibile dai servizi sociali. Essendo tutto ciò nient’affatto “onorevole”, sono rifiutati dal tessuto civile che li circonda e, consapevoli di ciò, vivono in una condizione di isolamento che solo in parte è imposta dall’esterno. I protagonisti, infatti, cercano loro stessi questa sorta di segregazione con finalità evidentemente conservative. È come se fossero consapevoli che un maggior inserimento nella società giapponese imporrebbe un’omologazione nei comportamenti e nei rapporti umani che gli impedirebbe di vivere con quella spontaneità emotiva a cui non possono più fare a meno. Ovviamente tale scelta non è esente da conseguenze, prima fra tutte l’impossibilità di un miglioramento materiale ed intellettuale. Ciò non sembra gravare particolarmente sugli adulti che hanno, chi più chi meno, consapevolmente fatto tale scelta isolazionista. Solo il ragazzino che vive con loro, non andando a scuola come tutti i suoi coetanei, sembra percepire l’anomalia di giornate passate a bighellonare fra un furtarello e l’altro. A far detonare la situazione sarà l’arrivo nel gruppo di una bambina maltrattata dalla famiglia di origine. Sarà proprio la presenza della bimba ad innescare una serie di conseguenze che demoliranno il fragile bozzolo che protegge la comunità creata dai protagonisti. Ciò che per questi ultimi è stato un salvataggio/adozione, per le autorità è un puro e semplice rapimento. Tale visione asettica ed impersonale degli eventi sarà cavalcata dai mass-media in cerca di facile sensazionalismo e, per puro opportunismo, dalla famiglia stessa della bambina. Il gorgo di ipocrisie e pregiudizi che ne deriva, avrà conseguenze terribili per quest’ultima. E’ forse a questo punto che il film trasmette con grande potenza uno dei temi universali che tratta: la “famiglia” dentro la quale si raccolgono i protagonisti viene freddamente analizzata dalle autorità statali, giudicata e smembrata senza alcun pudore. Non emerge alcun rispetto per i legami creatisi fra i protagonisti. E’ come se non esistessero in quanto non rientranti nei canoni della cosiddetta “normalità”. Ciò determinerà la crudele ed irrispettosa distruzione di questa famiglia atipica. Al contrario, il nucleo famigliare a cui appartiene la bambina non è sottoposto ad alcun vaglio poiché è percepita esternamente come  “normale”. Alla bimba sarà, quindi, imposto di tornare dai genitori che ricominceranno a maltrattarla. Il finale aperto lascia allo spettatore decidere se si compirà una tragedia o un ultimo atto salvifico.

Nonostante il punto di vista smaccatamente nipponico, penso di aver dimostrato come “Un Affare di Famiglia” tratti, prima di tutto, temi universali quali la famiglia in senso lato, i rapporti interpersonali nella società moderna, la distruttività del pregiudizio e l’importanza dell’infanzia. Sono temi che trascendono l’ambientazione giapponese e di cui si fanno portavoce i bravissimi attori presenti nella pellicola. Sono loro, con la loro convincente ed umanissima interpretazione, a permettere allo spettatore occidentale di bypassare le numerose barriere culturali di cui è pregna la pellicola rendendola un’opera di ampio respiro internazionale.