Nonostante la mia passione di vecchia data per l’animazione nipponica, è da relativamente poco tempo che ho coscienza dell’esistenza di Mamoru Hosoda e dei suoi film. Ricordo che il primo incontro fra me e questo regista avvenne al momento del mio viaggio in Giappone del 2015. All’epoca Tokyo era tappezzata di locandine dedicate a “The Boy and the Beast”, pellicola di Hosoda che in quel momento era proiettata nei cinema. Grazie al successo internazionale di pubblico e di critica, sia “The Boy and the Beast” che il precedente “Wolf Children” hanno goduto di una distribuzione anche in Italia. Inutile dire che non mi sono fatto scappare l’occasione di vederli sul grande schermo e, come dimostrano gli entusiasti articoli da me scritti all’epoca, è stato amore a prima vista. Entrambi i film sono, a mio avviso, eccellenti, dimostrano le grandi capacità di Hosoda e mi hanno inevitabilmente spinto a correre al cinema a vedere anche “Mirai”, recentissima opera del registra proiettata nelle sale nostrane dal 15 al 17 ottobre 2018.
Penso sia essenziale approcciarsi a “Mirai” consapevoli della forte nota autobiografica contenuta nel film. Il regista non ha fatto mistero che l’incipit dell’opera tragga origine dalla nascita del suo secondo figlio e dai mutamenti che ciò ha apportato al proprio menage familiare. Fino a tale evento Hosoda ha confessato di essere stato poco presente sia come marito che come padre a causa dei suoi impegni lavorativi. Nato il secondo figlio, il regista è stato messo alle strette dalla moglie che gli ha imposto di riorganizzare la propria vita professionale sia per essere un padre migliore sia per permettere alla consorte di tornare a lavorare. Tale consiglio (probabilmente accompagnato ad una minaccia di divorzio) è stato saggiamente accolto dal regista che, se da una parte ha salvato il proprio matrimonio, dall’altra ha avuto modo di meglio conoscere i propri figli ed il mondo dell’infanzia. “Mirai” è un film che deve essere visto consapevoli di queste importanti premesse. Solo così, infatti, si può comprendere fino in fondo il personaggio del padre (sicuramente autobiografico nella psicologia e nelle circostanze più comiche) e, soprattutto, l’intera storia narrata che, appunto, verte sulle reazioni di un bambino (Khun) rispetto alla sorellina (Mirai) appena nata. Khun ha quattro anni ed è abituato ad essere al centro dell’attenzione dei genitori. La nascita di Mirai sovverte gli equilibri familiari e Khun si sente tanto trascurato dai genitori da provare una fortissima gelosia nei confronti della sorellina; sentimento che esprime con dispetti e capricci infiniti. Il regista imbastisce la narrazione su due binari: da una parte lo spettatore è catapultato in dinamiche famigliari realistiche narrate con coinvolgente sapienza e delicatezza, dall’altra si innestano eventi fantastici di grande emozione. La casa in cui vive la famiglia di Khun, infatti, ha un piccolo cortile interno occupato da un giardino al cui centro si trova una pianta. Quest’ultima, quale metafora dell’albero genealogico della famiglia, è una sorta di portale temporale che permette a Khun di conoscere ed interagire con i propri genitori da bambini, la sua stessa sorella teenager, il bisnonno e, per brevi momenti inconsapevoli, anche con se stesso da liceale. Non è dato sapere se tutto ciò avvenga nella realtà o nella fantasia del bambino, importante è l’effetto che ha su di lui. A fungere da Virgilio in questi salti temporali e la versione antropomorfa del suo cane che mostrerà a Khun come lui stesso, con il suo arrivo, abbia privato l’animale delle attenzioni a cui era abituato, affetto che non è però mai venuto a mancare. E’ l’inizio di una serie di esperienze che porteranno il bimbo a comprendere come non esista solo il suo egoistico e capriccioso punto di vista ma anche quello delle altre persone. Persone con i loro sentimenti, le proprie esigenze e sensibilità. Khun scoprirà come la sua mamma ed il suo papà portino con sé le vite dei loro genitori, il carico delle esperienze fatte, delle difficoltà e paure mai superate, di come essi necessitino rispetto e collaborazione anche da parte di un bambino come lui per affrontare la vita e raggiungere, tutti insieme, la felicità e la serenità a cui ognuno aspira. “Mirai” non è altro che il cammino formativo di Khun. Ogni personaggio che interagisce con lui, lo aiuta a crescere, a migliorarsi ed a superare le sue paure. In tutto ciò ha ruolo fondamentale il bisnonno, protagonista di quelli che, a mio parere, sono i salti temporali più emozionanti e commoventi. Conosciuta la guerra e rimasto menomato ad una gamba sotto un attacco aereo, troverà la forza per ricostruire la propria vita permettendo a tutti loro di nascere e vivere. Non voglio divagare troppo ma vorrei evidenziare come il sottotesto di queste scene riesca a cogliere l’aspetto più terribile di ogni guerra. Non si tratta solo della morte e della distruzione delle vite di chi vi è coinvolto. Ad andare perse sono anche le esistente di tutti coloro che non hanno potuto nascere, i figli dei loro figli, che avrebbero potuto essere grandi politici, medici, scienziati…
Concludo consigliando veramente a tutti di vedere questo film. Lo considererei imperdibile per tutti coloro che hanno figli ma questo aspetto non deve far pensare che “Mirai” sia una di quelle commediucole destinate a celebrare la famiglia inneggiando ipocritamente a valori nella realtà inesistenti o dimenticati. L’ultima fatica di Hosoda è un film che arricchisce lo spettatore grazie ad una serie di emozioni veicolate in modo pieno e sincero. “Mirai” è una lezione di cinema e di capacità narrativa davvero difficile da eguagliare.