Nei limiti del possibile, cerco sempre di non perdermi i (rari) film di fantascienza che, nonostante il declino attuale del genere, passano nei cinema. Non ha fatto eccezione quello in oggetto che, produzione minore ben lontana dai fasti delle grandi major americane, è passato nella sale italiane approfittando del periodo estivo, da sempre considerato dai distributori locali come secondario e destinato a pellicole di nicchia o all’horror di serie B.
“Ex-Machina” è decisamente un film ben fatto e ben scritto. Principalmente basato sulla parola, la riflessione e le emozioni più intime, la storia raccontata si dipana lentamente in una serie di indizi ed eventi che conducono lo spettatore fino allo spiazzante colpo di scena finale. Ne risulta una pellicola che, pur dipanandosi in quasi due ore di durata, conquista lo spettatore dall’inizio alla fine grazie ad una trama piacevolmente complessa, influenzata da istinti ancestrali, debolezze umane, ingannevoli psicologie artificiali. Questo indubbio pregio del film è dovuto alla sua natura profondamente classica che, però, ne rappresenta anche il maggior difetto.
“Ex-Machina” non brilla per particolare originalità. In estrema sintesi potrebbe tranquillamente essere considerato un Frankenstein 3.0 con la differenza che il “mostro” generato è, grazie alla tecnologia, un’intelligenza artificiale contenuta in un androide femminile di bell’aspetto. Allo scopo di essere indistinguibile da un essere umano, essa è dotata ab origine di quella malizia e propensione all’inganno tipiche dell’animo umano e che, in ultima analisi, gli garantiranno la sopravvivenza. Quest’essere tecnologico ma “vivo” nel senso immateriale del termine, è privo di quell’onestà e purezza d’animo originaria che, al contrario, aveva il mostro di Frankenstein. Differentemente da quest’ultimo è, fin dalla sua creazione, munito dei difetti tipici dell’essere umano ma, cosa più inquietante, privo di valori in grado di compensarne gli effetti più criminali. In parte, questo è dovuto al completo isolamento con il mondo esterno imposto dal suo stesso creatore umano che, cadendo nel ben noto delirio di onnipotenza, ha creduto di poterlo creare perfetto fin dalla sua nascita. In realtà, segregandolo e privandolo di ogni rapporto con altre persone, ne ha solo accentuato l’inconsapevole crudeltà ed il desiderio di fuggire in qualunque modo, anche il più efferato.
Il fascino che subisce lo spettatore nel contemplare AVA, il nome dato all’intelligenza artificiale, è notevole ma non da meno sono le psicologie degli altri due personaggi che ne condividono lo schermo: il suo giovane creatore e l’ancor più giovane programmatore chiamato a verificarne le capacità. Di questi due Nerd a mezza strada fra l’anonimo ragazzo della porta accanto ed un Bill Gates onnipotente, si notano rapidamente i diversi modi con cui reagiscono ai loro caratteri introversi e solitari. Ciò è a tal punto vero che se si volesse cogliere l’elemento scatenante tutta la vicenda narrata nel film, la si troverebbe nella loro incapacità di relazionarsi con il genere femminile. Inadeguatezza, vera o presunta, che spinge il geniale miliardario a creare bambole senzienti e il maldestro programmatore a cadere nell’inganno della più perfetta fra queste.
“Ex-Machina” non è probabilmente un film destinato ad essere visto più di una volta ma, con tutta probabilità, anticipa temi e fatti destinati a concretizzarsi nel prossimo futuro. Ciononostante mi sento in dovere di dire che il medesimo soggetto (intelligenze artificiali, cyborg, confini così latenti fra uomo e macchina da mettere in discussione che cosa consenta la qualifica di “essere umano”) è trattato con molta più incisività, globalità e fascino da altre opere, prima fra tutte “Ghost in The Shell” che raccomando a chiunque fosse interessato a questi argomenti ancora momentaneamente fantascientifici.