E’ infine giunto anche nelle nostre sale l’ennesimo risultato della smania, ormai incontenibile e dilagante, che attori molto noti hanno di mettersi dietro la telecamera e di reinventarsi registi. Questa realtà apparentemente preoccupante, porta con sé molte meno conseguenze negative di quanto sembrerebbe, soprattutto considerando la qualità media degli attuali registi di professione.
Dopo Clint Eastwood e Ben Affleck (solo per citare alcuni buoni esempi), si aggiunge al gruppo Russell Crowe con il film “The Water Diviner”, sua opera prima come regista e di cui è anche interprete principale. A mio avviso, il risultato di questa sua duplice fatica è assai positivo. Non manca qualche calo di tono e qualche scelta stilistica un po’ sempliciotta (soprattutto nelle scene d’azione) ma l’attore australiano dimostra di conoscere e saper usare la macchina da presa con maestria e non escludo che, maturando maggior esperienza nel futuro, saprà proporci film degni di gran nota.
Russell Crowe interpreta Joshua Connor, agricoltore di rosse sabbie australiane e padre di tre figli partiti alla volta del fronte turco come membri dell’ANZAC (Australian and New Zealand Army Corps) nel corso della Prima Guerra Mondiale. I tre fratelli non faranno più ritorno dalle trincee di Gallipoli causando un tale trauma alla madre da portarla al suicidio tre anni dopo. E’ questo il pretesto che darà al protagonista la forza di imbarcarsi verso la Turchia alla ricerca dei cadaveri dei propri figli nonché di un senso alla tragedia propria e di tutta la nazione australiana. Ovviamente non mancherà un happy end che riconcilierà il protagonista con la vita ed con il senso di colpa per la tragedia avvenuta.
La storia di questo film non brilla né per originalità né per colpi di scena. Inoltre, essendo narrata con stilemi molto classici, richiama inevitabilmente pellicole precedenti suscitando nello spettatore un turbine infinito di dejà vu capace di mettere a dura prova anche lo spettatore meno attento. Ciononostante Russell Crowe riesce a confezionare un’opera capace di coinvolgere fino alla fine grazie a ricostruzioni storiche ben fatte (in particolare, la Istanbul di cent’anni fa) e ad attori capaci e ben inseriti nel loro ruolo (grande cura è, a mio parere, stata dedicata alla scelta dei volti giusti). A tutto ciò si aggiunge una grande sensibilità ed attenzione nella rappresentazione del “nemico”, qui incarnato dai Turchi ed in particolare dal colonnello che, difendendo con successo e tenacia Gallipoli, fu primo responsabile della morte dei figli del protagonista. Il dolore ancora vivo per le tragedie della guerra conclusa da poco, l’astio per la sconfitta subita e l’inevitabile diffidenza generata dal contatto con una cultura profondamente diversa sembrano impedire al protagonista ogni possibile empatia con i vecchi avversari della sua patria; ciononostante questi ostacoli apparentemente invalicabili verranno lentamente ma inesorabilmente demoliti grazie alla reciproca conoscenza che lo svolgersi della storia imporrà a tutti i personaggi principali. In questo processo il colonnello turco avrà ruolo cardine grazie alla sua levatura morale, alla sua grande umanità ed alla comunione di principi a cui il protagonista non potrà che rendere onore abbandonando quel cieco nazionalismo che, nei fatti, risulta essere il vero ostacolo ad un’amicizia profonda e sincera non solo fra uomini ma anche fra stati.
Per tutto quanto precede, mi sento di lodare Russell Crowe per essere stato capace di tanta sensibilità ed obiettività dimostrando un coraggio che, al contrario, non ha avuto Clint Eastwood, regista ben più esperto di lui, nel suo ultimo film (“American Sniper”).
Concludo con un paio di note goliardiche: sfruttando senza ritegno il suo doppio ruolo di regista ed attore principale, Russell Crowe si concede alcune perle di raro esibizionismo. Fra tutte spicca la scena iniziale in cui, praticamente a mani nude, scava un pozzo nella dura terra australiana sfoggiando muscoli e grandi abilità manuali ma non è nemmeno da dimenticare il primo piano “piaciosissimo” con cui conclude il film. Inutile dire che gli perdoniamo tutto, sia per la vena di autoironia che sempre traspare in queste scene sia perché ha saputo rimettersi in grande forma dopo alcune apparizioni sottotono in film precedenti. Il nostro protagonista, infine, alloggia in un albergo ad Istanbul gestito da una vedova di guerra con prole e, come esigenza di copione impone, nascerà fra loro un grande amore. Ovviamente la giovane donna in questione non è una tappetta pelosa, ricoperta da uno chador nero e recitante brani del corano bensì una bellissima donna (Olga Kurylenko) dai tratti mediorientali, alta e dalla mentalità e comportamenti più che europei.
Brighella di un Russell Crowe! 🙂
Le prodezze relative alle abilità di cercatore d’acqua e per certi versi da sensitivo (vedi ritrovare i cadaveri dei figli deceduti), tengono per mano lo spettatore attraverso un viaggio molto particolare ed evocativo. Concorde con te Andrea, nel sottolineare una ricostruzione storica di buon livello, a cui mi sento di aggiungere un’impeccabile uso della fotografia che evoca panorami e tramonti di una Instabul molto rurale di cent’anni fa. Fotografia, che non manca di fare da cornice sia alla storia d’amore con la vedova di guerra, sia nel tratteggiare la disperazione che permeava i teatri di battaglia di presenti in un ormai lontano ed imponente impero Ottomano.
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Ciao Francesco, grazie mille per il tuo bel commento che mi trova perfettamente d’accordo! 🙂
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