Il 1975 è stato un anno eccezionale non solo per la nascita del sottoscritto ma anche per l’avvento nelle sale italiane di due film il cui successo li avrebbe resi simboli del costume sociale nostrano nonché capostipiti di saghe più o meno longeve. Parlo, con ogni evidenza, di “Fantozzi” e di “Amici Miei”, due film che proprio nel 1975 ebbero i natali.
Per festeggiare i quarant’anni di “Amici Miei”, la nota pellicola di Monicelli è tornata nei cinema per due serate speciali il 16 ed il 17 novembre 2015. Riproporre nelle sale vecchi film sulla base di scuse più o meno plausibili è ormai diventata prassi consolidata. L’iniziativa è, a mio parere, lodevole anche se la distribuzione ha fatto di tutto per rendere indigesto l’evento. E’ chiaramente ingiustificabile un biglietto dal costo pari ad 11 euro, soprattutto considerando che (i) i giorni erano infrasettimanali, (ii) si trattava di un film visto e stravisto e (iii) l’edizione non ha subito alcun tipo di restauro o miglioria perciò video ed audio risentivano chiaramente degli anni trascorsi. Si pone, conseguentemente, una domanda inevitabile: valeva veramente la pena rivedere al cinema “Amici Miei”? Rispondere a tale quesito non è facile perché molto dipende da come una persona è abituata a fruire i film. Se tutto si limita a visionare una marea di pellicole scaricate da Internet come in una maratona da svolgere nei ritagli di tempo (magari facendo anche altro), andare al cinema per vedere un film come “Amici Miei” non aveva senso. Se, invece, considerate importante concedere ad una pellicola il tempo e l’attenzione che merita e pensate che una sala cinematografica sia ancora un altare a cui consacrare il vostro tempo al solo scopo di contemplare un film nel luogo per cui è nato e senza distrazioni, allora l’occasione era da non perdere.
Che dire di “Amici Miei” che non sia già stato detto da fonti ben più qualificate di me? Mi limiterò a descrivere le sensazioni che mi ha dato rivedere il film con un’attenzione che raramente gli avevo concesso in passato. Prima di tutto devo ammettere di essere rimasto molto colpito da quanto l’opera sia, in realtà, estremamente malinconica. Le zingarate, la supercazzola, gli scherzi e le battute divenute epocali sono, nei fatti, una semplice patina comica che camuffa, senza nascondere, la pateticità dei personaggi (anche minori) e della condizione umana in generale. Si avverte chiaramente l’accusa verso una società imborghesita che si è chiusa in se stessa, si è imposta regole di comportamento che ingabbiano vite in schemi tanto dogmatici quanto volontariamente desiderati e, soprattutto, si coglie appieno un’Italia che non è più quella del boom economico del dopoguerra bensì una nazione che si è già condannata ad una lenta ma inesorabile recessione. Da qui la descrizione di una società intristita, dalle prospettive fosche e dalle speranze tradite. Contesto ulteriormente compromesso dai luoghi in cui è ambientato il film: una provincia banale, opprimente e totalmente anonima che sembra gravare sui protagonisti rendendo ancor più insopportabile la loro quotidianità. Su quest’ultimo punto è interessante notare che, nonostante il film sia girato a Firenze e nei suoi dintorni, non c’è una sola inquadratura in cui si scorgano i luoghi più caratteristici ed affascinanti di questa città o del territorio di cui è capoluogo. Ciò è certamente dovuto alla volontà degli autori di rappresentare un non-luogo alienante e riconducibile a qualunque zona d’Italia. Peccherò di eccessiva malignità nei confronti degli autori ma penso che, in tal modo, essi abbiano anche voluto negare ai protagonisti il sollievo spirituale offerto dalla bellezza dei monumenti e dei paesaggi italiani.
Mi permetto un ultimo commento sui protagonisti: ho sempre pensato che “Amici Miei” condannasse in primo luogo la loro falsa spensieratezza, l’incapacità di prendersi responsabilità, la loro pretesa di fare a cinquant’anni ed oltre le stesse buffonerie di quando erano ragazzi. In realtà non è così o lo è solo in parte. Emblematica è una considerazione del Perozzi in riferimento al figlio la cui concezione della vita è diametralmente opposto alla sua: “Restai a chiedermi se l’imbecille ero io che la vita la pigliavo tutta come un gioco, o se invece era lui che la pigliava come una condanna ai lavori forzati”. Sono uscito dal cinema con l’idea che Monicelli non abbia voluto additare a modelli negativi i protagonisti della pellicola bensì condannare quelle ipocrisie benpensanti che impongono scelte di vita precise anche a chi non ne sarebbe destinato. I cinque amici diventano tristi e patetici nel momento in cui, per semplice quieto vivere, hanno ceduto a tali pressioni della società, si sono sposati ed hanno avuto figli. Diventano esempi negativi non tanto in quanto infantili ed immaturi ma perché, nonostante ciò, si sono presi vigliaccamente responsabilità a cui non erano destinati rovinando di fatto la vita a coloro che li hanno amati. Tutti i protagonisti hanno distrutto l’esistenza di chi li circonda e, a condizione che le vittime della loro inadeguatezza non abbiano preferito immolandosi ad esistenze insoddisfacenti e drammatiche pur di tenere in piedi rapporti effimeri, ciò ha generato odi insanabili nei loro confronti che non vengono meno nemmeno di fronte alla morte.
Credo che sia da trovare in tutto ciò la ragione principale dell’amarezza che permea tutto il film restando incontestabile il valore dell’amicizia come unica ancora di salvezza contro le disavventure della vita.