Humandroid locandina

In quanto appassionato di fantascienza, cerco il più possibile di compensare la frustrazione dovuta alla sempre minor offerta di film appartenenti a questo genere, cercando di vedere tutte le nuove pellicole che raggiungono i nostri cinema. Non ha fatto eccezione “Humandroid”, film di cui non sapevo assolutamente nulla prima di entrare in sala e che mi ha concesso, per la prima e forse unica volta nella vita, l’elettrizzante esperienza di essere completamente solo di fronte al grande schermo. Non mi era mai successo nulla di simile neanche durante la proiezione del film d’animazione nipponico più sconosciuto e di nicchia… Tutto ciò sembra proprio essere la conferma che l’Italia non è un paese per film fantascientifici. Ne consegue che è ancor più incomprensibile per quale motivo, al contrario, le sale si riempiano per l’ennesima, scontata e ripetitiva sbobba Fantasy legata più o meno direttamente alla saga de “Il Signore degli Anelli”. Indipendentemente dal genere e dal nome affibbiato per motivi didascalici, non si tratta sempre e comunque della stessa materia “fantastica” di cui sono fatti i film come i sogni?

Sorvolando su questo controsenso esistenziale legato ai gusti del grande pubblico, sole due convinzioni portavo con me al momento del mio ingresso nella sala: la prima è che avrei visto una versione ammodernata e bombarola di quel classico senza tempo che è “Corto Circuito”, la seconda si basava sull’idea che avrei contemplato un design fortemente ispirato a Briarios, il cyborg coprotagonista di “Appleseed”, noto manga di Masamune Shirow.

Se quest’ultima supposizione si è dimostrata nella sostanza inconsistente salvi alcuni particolari che voglio considerare dei piccoli omaggi al famoso mangaka, la seconda si è dimostrata decisamente corretta. “Humandroid” può veramente essere considerato un discendente di “Corto Circuito” con cui condivide protagonista (robot/androide), tematiche (intelligenza artificiale che prende coscienza di sé) e messaggio di fondo (l’umanità non la si possiede di diritto ma è una dote da conquistare e coltivare).

Ne consegue che “Humandroid” non è altro che un clone insapore e, nella sostanza, inutile? Direi proprio di no! Il film ha una sua anima ed una sua forte originalità. Le esperienze di vita di Chappie, l’androide protagonista, sono a tal punto crude e toccanti da creare una forte empatia con lo spettatore che vive con grande partecipazione i suoi traumi e le sue gioie. Sotto questo punto di vista risulta assai prezioso anche il sapiente uso degli effetti speciali che riescono a rendere Chappie estremamente naturale nei movimenti, nella gestualità e nelle espressioni di quello che, nonostante la sua natura meccanica, non può che definirsi “viso”. Ulteriore nota di merito è la grande importanza data ai personaggi che interagiscono con Chappie. Essi sono dei co-protagonisti a tutti gli effetti e, se questo risulta abbastanza prevedibile per quanto concerne il giovane ingegnere suo creatore, risulta invece inaspettato rispetto alla banda di criminali punk e naif che ne entra fortunosamente in possesso e che intende usarlo per furti e rapine. E’ con loro e con il mondo criminale che li circonda che, a mio parere, il film raggiunge il suo apice grazie ad una sapiente scelta degli attori, le cui facce e fisicità sono talmente originali e perfetti per i ruoli assegnati da sembrare disegnati apposta (come del resto sembrano suggerire i tanti tatuaggi che ostentano).

Ulteriore protagonista del film “Humandroid” è l’ambientazione. Una Johannesburg postindustriale, assediata da una criminalità a cui si contrappone una polizia militarizzata che usa senza parsimonia androidi come Chappie per missioni che sono chiaramente di natura bellica. Il richiamo alla Detroit di “Robocop” è inevitabile sebbene manchino le ironiche contraddizioni di quest’ultimo cult movie. In effetti il regista, rimanendo molto fedele a sé stesso, non concede particolari rimandi a celebrate pellicole precedenti se non a “District 9”, suo film d’esordio, a cui è impossibile non andare immediatamente con il pensiero tanto simile è il taglio delle scene, la metodologia di ripresa e l’uso di una luce intensa ma fredda ormai identificante le opere di Neill Blomkamp.

Cicche inaspettate sono anche la presenza di Hugh Jackman nel ruolo di un perfido ingegnere guerrafondaio e, soprattutto, di Sigourney Weaver a capo dell’azienda che produce gli androidi poliziotti. Se Hugh Jackman si distingue per un ruolo da cattivo ben lontano dalle pellicole che normalmente gli vengono riservate ad Hollywood, decisamente sottotono e secondario è quello affidato a Sigourney Weaver che avrebbe meritato maggior spessore ed importanza nella storia sia per la valente attrice che è (tra l’altro, sempre bellissima) sia perché, purtroppo, la si vede assai raramente interpretare nuovi film.

Humandroid” è, quindi, un film riuscito e da non perdere? Purtroppo no. A mio parere la pellicola parte molto bene e si mantiene a livelli alti ma scade sul finale peccando di eccessiva leggerezza. Un lieto fine del tutto evitabile, infatti, banalizza un tema che avrebbe meritato ben diverso approccio. L’inserimento di una coscienza/anima umana all’interno di un corpo meccanico comporta chiaramente difficoltà di accettazione e di adattamento che imporrebbero una drammaticità per lontana dalla faciloneria con cui il film conclude la storia dei suoi protagonisti.